(Roma, 26 aprile 2021). La crisi tra Donbass e Mar Nero è finalmente rientrata e fra le parti, nonostante il clima sedimentato di ostilità permanente e strutturale, è stato ripristinato il dialogo. Conseguito lo scopo precipuo dell’escalazione controllata, con Volodymyr Zelensky che ha chiesto a Vladimir Putin una bilaterale per discutere del processo di pace tra Lugansk e Donetsk, il Cremlino ha potuto dare il via ad un ritiro progressivo e parziale delle forze armate minacciosamente schierate ai bordi dell’Ucraina orientale e realizzare qualcosa di significativo sui propri rivali: non hanno (per ora) né la forza né la volontà di varcare l’invisibile linea rossa che lega Donbass e Crimea, e questo significa potere (negoziale).
La strategia del rischio calcolato ha funzionato: nel Donbass vige nuovamente la quiete, dopo cinque mesi costellati di violazioni del cessate il fuoco quasi quotidiane, la Crimea è stata messa in sicurezza attraverso il potenziamento delle truppe terrestri e navali ivi dislocate, la presidenza Zelensky ha perduto una partita cominciata di propria iniziativa e la stessa amministrazione Biden ha contribuito all’abbassamento delle tensioni febbrili, come palesato dall’annullamento dell’invio delle navi da guerra nel Mar Nero.
Le analisi catastrofistiche delineate da buona parte della realtà dell’informazione generalista e specializzata hanno raggiunto l’obiettivo di incutere timore e allarme nel pubblico, ma non hanno prevalso perché fondate su una mescolanza di irrazionalità e scarsa conoscenza del modus operandi e della forma mentis della Russia, nonché, nel complesso, del funzionamento delle relazioni internazionali. Sulle nostre colonne, in controtendenza al pessimismo generalizzato, avevamo ritenuto basso e improbabile il rischio di una guerra aperta, avendo cognizione dei tre elementi di cui sopra e della posta in gioco, e la de-escalazione e i fatti successivi ci hanno dato ragione.
Adesso che la crisi è rientrata, esaurendo la propria funzione, le diplomazie di Stati Uniti e Russia stanno lavorando con più intensità di prima all’allestimento dell’attesissima e anticipatissima bilaterale tra Putin e Joe Biden, l’evento spartiacque che, mettendo la parola fine a questo periodo di transizione, condurrà la nuova guerra fredda ad una nuova fase.
Tutto pronto per il faccia a faccia
La bilaterale Putin-Biden si prefigura come l’evento del 2021, perché sarà l’unico e veridico spartiacque in grado di spianare la strada all’entrata della guerra fredda 2.0 in una nuova fase. È da tre anni che non ha luogo un vertice ufficiale tra gli inquilini di Cremlino e Casa Bianca – l’ultimo è stato Helsinki 2018 – e il tempo è propizio perché riaccada: la mutua ostilità tra le due potenze non era così alta dal dopo-Euromaidan, da qui l’imperativo di un incontro che permetta loro di stabilire delle linee rosse e trovare dei campi da esentare dalla conflittualità, come cambiamento climatico e corsa agli armamenti.
Non è da escludere che l’amministrazione Biden possa tentare l’azzardo più impensabile, cioè il gioco della carta Kissinger – del resto, nessun invito è stato lanciato all’indirizzo di Xi Jinping e il cambio di partito alla Casa Bianca non sembra aver favorito quel pronosticato riavvicinamento fra Washington e Pechino –, sebbene il compimento di tale missione risulti complicato dalla cristallizzazione ad ogni livello della politica, della cultura e della società statunitensi di un clima di esasperata russofobia e caccia alla streghe di maccartista memoria.
Le parti, nonostante tutto, si accingono ad incontrarsi e a tentare un dialogo, anche se tra sordi, e hanno delegato alle rispettive diplomazie l’onere-onore di allestire il faccia a faccia più atteso dell’anno. L’amministrazione Biden aveva comunicato che la bilaterale avrebbe potuto avere luogo in estate e, in effetti, il Cremlino ha confermato che stanno venendo vagliate alcune date nel mese di giugno, tra le quali una possibile due-giorni fra il 15 e il 16 che risulterebbe particolarmente comoda all’inquilino della Casa Bianca, che dall’11 al 13 sarà a Carbis Bay per il G7 e il 14 a Bruxelles per un vertice Nato.
Regna ancora il mistero, invece, sul posto che verrà investito del lustro di aver ospitato i due presidenti nel pieno della nuova guerra fredda. Biden aveva proposto di organizzare l’evento in un Paese politicamente neutrale, ergo accettabile da ambo le parti, e disponibilità in tal senso è stata confermata da Austria (forte di aver ospitato i negoziati per il prolungamento del trattato Start), Svizzera (sede dello storico Reagan-Gorbačëv), Finlandia (teatro di tre storici incontri nel 1975, nel 1997 e nel 2018) e Repubblica Ceca (casa del nuovo Start). Non è da escludere, comunque, che le due diplomazie possano optare per un effetto sorpresa, selezionando una nazione non presente in suddetta lista.
Emanuel Pietrobon. (Inside Over)