(Roma, 23 aprile 2021). Tra il 22 e il 23 aprile, tre razzi hanno colpito un’area dell’aeroporto internazionale di Baghdad che ospita le forze armate degli Stati Uniti. Secondo le autorità irachene, non ci sono state vittime.
Inoltre, le forze di sicurezza irachene hanno disinnescato alcuni razzi non esplosi che erano stati posizionati sul tetto di una casa vuota dal quale è partita l’offensiva. Al momento, non è stata segnalata alcuna rivendicazione dell’attacco, che è il secondo che colpisce gli interessi statunitensi in Iraq, in meno di una settimana. Il 18 aprile, cinque i missili, di tipo Katyusha, hanno colpito una base militare irachena al-Balad, situata a circa 80 km a Nord della capitale Baghdad, nella provincia di Salah al-Din. L’area in questione ospita anche alcuni collaboratori statunitensi e due di questi sono rimasti feriti, insieme a tre soldati statunitensi. Anche questa offensiva non è stata rivendicata, ma le autorità locali ritengono che i responsabili siano vicini a gruppi armati filoiraniani,i quali hanno più volte preso di mira obiettivi militari legati agli Stati Uniti e alla coalizione internazionale anti-ISIS da loro guidata, presenti nella regione.
Quello contro l’aeroporto internazionale di Baghdad è il ventitresimo attacco con bomba o missile che colpisce aree in cui sono presenti cittadini statunitensi, da quando il presidente degli USA, Joe Biden, è entrato in carica, il 20 gennaio. Il calcolo include anche obiettivi come le truppe, l’ambasciata americana a Baghdad o convogli di rifornimenti iracheni alle forze armate straniere. Gli assalti sono aumentati a partire dal mese di ottobre 2019, sotto l’amministrazione dell’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Da allora, le basi e le strutture statunitensi in Iraq sono state oggetto di più di 40 attacchi. In risposta, Washington ha minacciato una ritorsione contro le milizie irachene filoiraniane, con riferimento alle cosiddette Brigate di Hezbollah, ritenute responsabili di diversi attentati.
Un altro obiettivo iracheno più volte colpito è la Green Zone, un’area fortificata situata nella capitale Baghdad, sede di istituzioni governative e ambasciate, tra cui quella degli Stati Uniti. L’attacco più recente in tale area risale al 22 febbraio. La lista degli obiettivi presi di mira include, poi, l’aeroporto di Erbil, nel Kurdistan iracheno, colpito da un attacco missilistico, la sera del 14 aprile e rivendicato da un gruppo soprannominato Saraya Awlia al-Dam, ovvero i “Guardiani delle Brigate di Sangue”, già responsabili di un altro assalto con missili del 15 febbraio scorso, anch’esso perpetrato contro il medesimo aeroporto. In tale occasione, gli autori avevano specificato che il reale obiettivo erano i cittadini statunitensi presenti in Iraq e che, pertanto, il loro attentato era da considerarsi una forma di vendetta per la morte dei loro leader martirizzati.
A proposito della presenza straniera nel Paese, durante l’ultimo round del dialogo strategico tra Baghdad e Washington, tenutosi il 7 aprile, i due Paesi hanno stabilito che le truppe da combattimento statunitensi, impegnate nella lotta allo Stato Islamico, abbandoneranno l’Iraq, mentre le forze degli USA continueranno a fornire consulenza e addestramento. In tale data, i delegati iracheni e statunitensi si sono incontrati nel quadro del cosiddetto “dialogo strategico”, promosso dal premier di Baghdad, Mustafa al-Kadhimi, proprio con l’obiettivo di definire il ruolo degli Stati Uniti nel Paese e discutere del futuro delle relazioni economiche, politiche e in materia di sicurezza tra le due parti. Il fine ultimo è creare una sorta di stabilità nell’asse Washington-Baghdad e rafforzare i legami tra i due Paesi sulla base di interessi reciproci.
A seguito dell’operazione militare su suolo iracheno, ordinata dalla Casa Bianca guidata dall’ex presidente Donald Trump, che ha causato la morte del generale iraniano Qasem Soleimani, il 3 gennaio 2020, la presenza delle truppe statunitensi nel Paese è stata fortemente criticata e i rapporti tra Washington e Baghdad si sono incrinati. La ragione è da ritrovare nel fatto che gli Stati Uniti non hanno chiesto l’autorizzazione per effettuare l’attacco del 3 gennaio 2020. Inoltre, la tensione a livello regionale e internazionale è salita enormente, a causa della tensione tra USA e Iran. Quindi, il 5 gennaio, il Parlamento di Baghdad, aveva proposto al governo di espellere tutte le forze armate straniere. Tuttavia, il 30 gennaio, l’esercito iracheno ha riferito che le operazioni con la coalizione contro lo Stato Islamico erano state riavviate. Al momento, sembra che il ritiro verrà completato, ma la situazione sul campo rimane complessa e in via di sviluppo.
Un report rilasciato dalle Nazioni Unite, nel mese di agosto 2020, indicava la presenza di 10.000 i militanti dell’ISIS ancora attivi in Iraq e in Siria. Questi si sarebbero organizzati in piccole cellule che si spostano tra i due Paesi liberamente, mentre altri avrebbero trovato riparo nel Nord-Est dell’Iraq, nella zona montuosa di Hamrin, da cui starebbero conducendo una “guerra di logoramento” contro le forze di sicurezza irachene. Inoltre, secondo diverse fonti, l’obiettivo dell’organizzazione è minare il governo di Baghdad, attraverso attentati contro forze di sicurezza e gruppi civili che colpiscono anche infrastrutture statali, situate perlopiù in “aree aperte” a Nord della capitale.
La presunta sconfitta dello Stato Islamico risale al 9 dicembre 2017, quando, dopo tre anni di combattimenti, il governo iracheno annunciò la vittoria sull’ISIS. In particolare, fu il primo ministro dell’Iraq allora in carica, Haider Al-Abadi, a comunicare che l’esercito aveva ripreso il totale controllo del Paese, dopo la riconquista di Rawa, una città ai confini occidentali di Anbar con la Siria, ultimo baluardo del gruppo in Iraq. L’inizio della presenza dello Stato Islamico in Iraq risale, invece, al 2014. Dopo aver occupato gran parte del territorio iracheno, il 10 giugno di quell’anno l’organizzazione prese anche il controllo di Mosul, seconda città del Paese e principale nucleo urbano caduto in mano ai jihadisti, liberata poi il 10 luglio 2017.
Maria Grazia Rutigliano. (Sicurezza Internazionale)