La strategia di Erdogan passa per l’Europa

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(Roma 23 novembre 2020). La Turchia e l’Europa. Un rapporto complesso che non si è mai interrotto, che affonda le radici nella geografia e nella storia. Non c’è Turchia che non guardi all’Europa, obiettivo della sua tendenza a espandere la propria influenza verso Ovest. E non c’è Europa che non guardi alla Turchia, prima centro e avamposto con l’Impero romano d’Oriente e poi grande nemico (e a volte amico) con l’Impero ottomano e la Repubblica turca. Un incontro/scontro che perdura da secoli e che oggi è rappresentato dalle frizioni tra il mondo europeo e la Repubblica governata da Recep Tayyip Erdogan, quel leader che un tempo era accolto nelle cancellerie europee come colui che avrebbe portato Ankara tra le braccia dell’Ue e che oggi, per molti , è il primo nemico del Vecchio continente.

Negli ultimi anni, il presidente turco ha cambiato radicalmente posizione rispetto all’Occidente e all’Unione europea. Fino a qualche anno fa si parlava costantemente di un suo ingresso nell’Ue, come se fosse il naturale destino del processo di laicizzazione della Turchia e della sua progressiva occidentalizzazione. Un percorso di alti e bassi in cui l’appartenenza alla Nato avrebbe dovuto rappresentare una sorta di tappa intermedia prima dell’”assalto” all’Europa, ma che ha subito una brusca frenata nel corso degli ultimi anni.

Quell’Europa agognata da milioni di turchi e dallo stesso Erdogan ha più volte rischiato l’implosione a colpi di crisi economiche e di identità. Gli Stati Uniti, sponsor dell’Ue, hanno cambiato approccio verso il Vecchio continente puntando più sull’Alleanza atlantica che sulla partnership con Bruxelles. E la Turchia, da avamposto laico del Medio Oriente, ha accelerato una sorta di “orientalizzazione” che ha visto Erdogan transitare dal nazionalismo di stampo laico a uno di matrice islamica. Uno spostamento che unito al fallito golpe, alla guerra in Siria, al fenomeno migratorio e alla progressiva partnership con la Russia ha di fatto trasformato Ankara nella prima capitale d’Oriente alle porte dell’Europa. Europa che nel frattempo si è contrapposta (tardi e con debolezza) alle richieste turche sul Mediterraneo e sui confini.

Da quando la Turchia firmò, nel 1987, la richiesta di adesione all’Unione europea, le cose nel mondo sono decisamente cambiate. Non esiste più un’Unione sovietica a cui strappare territori e possibili partner, il fenomeno del terrorismo islamico internazionale viaggiava su binari nazionalisti e non come lo intendiamo oggi, la Turchia laica era un partner economico e commerciale fondamentale nonostante gli attriti già esistenti – di un decennio prima lo scoppio della crisi di Cipro – e la Cina un gigante ancora rinchiuso nel suo enorme guscio terrestre. Ankara sembrava un Paese che aveva accettato la fine dei propri sogni di espansione nel Mediterraneo e nel Medio Oriente e tutto faceva presagire un lento e graduale allineamento all’Europa.

La Storia però non è mai una certezza e le cose sono nettamente cambiate. Erdogan lo ha capito così come il deep State turco che da anni prepara il terreno per un ritorno sulla scena mondiale di Ankara. Mancano le risorse, certo, ma non le idee né le strategie. E questo è un punto di vantaggio di non poco conto per un Paese che ha forti ambizioni e davanti a sé interlocutori sempre meno forti e compatti. La Turchia sa cosa vuole. Partendo dalla “Profondità strategica” firmata da Ahmet Davutoglu e dal “Mavi Vatan” di Cem Gurdeniz, i turchi hanno costruito un nuova idea di Paese fondata non più sull’accettazione del trattati e della condizione di avamposto dell’Occidente, ma di potenza autonoma in grado di scegliere una propria direzione, a cavallo tra Oriente e Occidente e non più come estremo lembo dell’uno o dell’altro. La Turchia è al centro e intende starci, dettando anche condizioni. Una posizione che Erdogan ha saputo convogliare anche in una politica estera aggressiva, feroce e non priva di inquietanti connessioni con milizie islamiste e organizzazioni radicali.

In questa condizione di nuova centralità della Turchia – economicamente debole e per questo anche più potenzialmente pericolosa e dinamica – si inseriscono le ultime mosse di Ankara. La lotta per le risorse energetiche del Mediterraneo orientale, la crescita delle basi militari in quelli che erano gli avamposti dell’Impero ottomano, la lotta per nuovi accordi commerciali con la Cina e per l’inserimento nei porti del Mare Nostrum, fino al Caucaso e alle province siriane. Una Turchia che ha una direttrice che parte dal Golfo Persico e Corno d’Africa, passa per Istanbul e finisce possibilmente in Europa, in quei Balcani mai dimenticati e dove le mire di Erdogan incontrano l’Ue. Di cui appunto non può fare ancora a meno. Il sultano lo sa benissimo. Lo sa anche perché deve rassicurare il proprio elettorato, preoccupato da una crisi economica galoppante e che vede l’Europa come un partner economico necessario.

Non c’è da stupirsi quindi che in un discorso rivolto ai propri sostenitori dell’Akp, il presidente turco abbia nuovamente parlato di Turchia in Europa. “Chiediamo all’Ue di mantenere le sue promesse, di creare un legame più stretto con noi, mantenendo la loro promessa di piena adesione e rispettando gli impegni sui migranti, di non discriminarci o almeno di non farsi strumento dei nemici che prendono di mira il nostro Paese”, ha detto il leader turco. “Non ci vediamo altrove che in Europa”, ha poi continuato Erdogan, “vogliamo costruire il nostro futuro insieme all’Europa”. Parole che solo in apparenza sembrano contraddire quanto avvenuto in questi mesi con la Grecia e soprattutto con la Francia di Emmanuel Macron, ma che invece rappresentano una parte essenziale della strategia del sultano, che se non sa che farsene dell’Unione europea e delle sue regole, non può invece farne a meno sia dal punto di vista economico che politico. E in questo modo lancia un nuovo messaggio verso un continente sempre più guidato da quel Macron che da tempo ha ingaggiato con il presidente turco un braccio di ferro senza precedenti nella storia recente dell’Europa mediterranea. Ma su cui Erdogan scommette anche per far ripartire l’economia e i suoi sogni di leadership del mondo musulmano.

L’appello di Erdogan è un messaggio in codice molto chiaro. Ai suoi supporter nazionalisti, il leader turco mostra la spada rivolgendosi in toni minacciosi a Bruxelles. Ma a livello diplomatico, la mossa serve soprattutto per aprire un canale con l’Ue in vista del vertice di dicembre che deve valutare la possibile entrata in vigore delle sanzioni contro la Turchia. Una mannaia per l’economia anatolica, ma anche una potenziale miccia per proteste contro la politica del sultano, che si è costruita su un difficile equilibrio di guerre, velleità espansionistiche, alleanze politiche e crollo della lira turca. Ma che ha potuto soprattutto contare su un caos geopolitico che ha permesso alla Turchia di presentarsi come nuova potenza.

Un piano che però ora ha bisogno di denaro e di una tregua con i partner economici e commerciali europei, specialmente con l’avvento della presidenza Biden in Usa. Nelle ultime settimane, oltre alle accuse di Macron, sono arrivate le parole di Heiko Maas, ministro degli Esteri tedesco, che ha paventato l’ipotesi di sanzioni in caso di provocazioni turche. Mentre l’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell, ha affermato che si sta avvicinando “un momento spartiacque nelle relazioni con la Turchia”. Per capire la situazione in vista del vertice europeo del 10 dicembre, Erdogan ha spedito a Bruxelles il suo portavoce, Ibrahim Kalin. E nel frattempo da Ankara arrivano prime timide ipotesi di riforme in senso democratico, specialmente sul sistema giudiziario.

Non c’è una conversione sulla via di Damasco (in questo caso di Bruxelles) da parte di Erdogan, ma un preciso calcolo politico. La finestra di opportunità che si era aperta in questi anni è stata sfruttata dalla Turchia per ottenere una serie di vittorie strategiche che le permettono di avere sul tavolo una serie di armi contrattuali che fino a qualche anno fa non aveva. Oggi Ankara non ha solo il rubinetto del flusso di migranti dalla Siria. La Turchia del 2020 ha Tripoli, ha la minaccia continua di un’escalation nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale, basi in Qatar e Corno d’Africa, una rete di intelligence radicata in Europa, relazioni con la Russia e con l’Ucraina e una forte partnership con la Cina, a tal punto che molti definiscono il Paese mediorientale un vero e proprio cliente di Pechino. Tutte carte che il sultano potrà giocarsi con l’Europa, potendo minacciare il continente con ognuna di queste armi e coprendo la sua debolezza interna, sia economica che politica. Se l’Unione europea non saprà giocare bene la partita del vertice di dicembre, quella che potrebbe essere la resa turca a Bruxelles potrebbe rivelarsi una clamorosa vittoria del Reis.

Lorenzo Vita. (Inside Over)