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Ground zero a Beirut

(Roma 17 novembre 2020). Beirut, 25 settembre 2020. Prendo un caffè all’inizio della superstrada che costeggia il porto: la cameriera è gentile e ringrazia Dio di non essere stata presente al lavoro quel giorno. Dice quel giorno, senza specificare quale. Non ce n’è bisogno. “Quel giorno” è il 4 agosto scorso, quando un’esplosione ha annientato il porto di Beirut, trascinando con sé tutto ciò che ha incontrato. “Sarei morta”, dice la cameriera, “come la ragazza che mi sostituiva”. Si sta bene in quel piccolo caffè che è la Beirut che conosco, cortese e piacevole. Anche lì, però, sono arrivati il male e la paura. È stata una questione di secondi. Prima il fumo, poi mille lapilli rossi e infine il boato. Lacrime, sangue e corpi inghiottiti. In poco tempo Beirut è tornata a vivere la paura del passato.

La guerra qui si muove come una falce. Va avanti e indietro. È ciclica e miete tutto ciò che incontra, senza mai dare frutto. È apparsa nel 1975 e, per 15 anni, non ha mai abbandonato il Paese. Ha distrutto tutto. Ancora oggi, camminando per le vie della città, si possono vedere edifici pieni di buchi, come se fossero stati mangiati da enormi termiti. Una triste eredità di quel conflitto tra fratelli. La pace, però, è durata poco. Nel 2006, come una mareggiata improvvisa, è iniziato la guerra tra il Partito di Dio ed Israele. Quella che doveva essere una rappresaglia per il rapimento e l’uccisione di alcuni soldati di Tsahal si è trasformata in una vera e propria operazione militare che ha interessato (e distrutto) più di metà del Paese dei cedri. C’è chi dice che Hezbollah abbia vinto. Può essere. Di certo ha perso l’umanità.

Sono queste le memorie di Beirut, la città che ha visto passare e partire profughi ed eserciti. La città che era innanzitutto un porto. Che ora non c’è più. Quando cerco di avvicinarmi ad esso vengo subito fermato dai militari. Sono armati e hanno l’ordine di non far passare nessuno. Le indagini su quanto successo il 4 agosto scorso sono ancora in corso. Sono venuti osservatori da tutto il mondo per capire cosa è successo in quel pomeriggio d’estate. Ma ancora oggi nessuno riesce a comprendere come, e soprattutto perché, si sia verificata un’esplosione simile. Sto pensando a queste cose mentre, senza rendermene conto, inizio a camminare sul bordo della superstrada. Mi preoccupo un po’: gli autisti libanesi non si cureranno  molto di uno stupido italiano con la macchina fotografica. Ma è guardando quel cumulo di macerie che tutto diventa chiaro: non è come alla televisione. Ho immediatamente la visione dell’immensità della tragedia, dell’ampiezza. Ovunque ci sono strutture contorte dal calore. Vetrate intere distrutte giacciono a terra. Case e uffici sono senza il tetto. Un camion si è rovesciato. Ma è guardando dall’altra parte della strada che si percepisce il senso di una vita distrutta. Le facciate di palazzi, ristoranti e uffici sventrati sono sventrati. Fissando lo sguardo, vedo dentro di essi i resti di vite intere: fotografie appese ai muri, sedie, poltrone e qualche mobile con i cassetti aperti. Su una parete è rimasta solo una malinconica gabbia aperta.

Più mi avvicino al centro dell’esplosione più rivedo quel fungo, quel fuoco iniziale e spaventoso. La macchina fotografica panoramica amplifica il paesaggio. Cammino e vedo un uomo con una stampella: non capisco se gli manca una gamba. Vorrei parlare con lui ma ci separa una lingua. Cosa gli è successo? Quel giorno, come lo aveva chiamato la cameriera, c’era anche lui al porto? Lo guardo andare via, portando con sé tutte le risposte ai miei quesiti. Così, senza quasi rendermene conto, arrivo alla Spoon river di Beirut, che non è fatta di parole ma di volti. Muti. Ci sono solo le loro fotografie, i loro nomi, la loro provenienza e la loro età. E poi un elenco, infinito ed incompleto, del numero delle vittime. Intorno a me c’è solo un panorama vuoto tra le gru nere. Quando arrivo ai granai capisco che sono stati loro, insieme al mare, a salvare gran parte della città dall’onda d’urto, che si è appoggiata a loro allargandosi per poi spegnersi nel mare.

Attraverso la strada, e solo chi ha visto questa città sa quanto possa esser pericolosa un’operazione simile, e ritrovo la Beirut di sempre: sospesa nella sua confusione, nel suo traffico e nel suo fascino. Grandi cartelli risuonano di parole di forza e speranza: Beirut rinascerà. Ma la città e il Libano sembrano sempre sospesi in attesa di qualcosa. Che spesso si trasforma in una nuova tragedia.

Testo e foto-Ivo Saglietti. (Inside Over)

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