(Roma 10 novembre 2020). Solo una cosa spaventa di più dell’incessante fuoco dell’artiglieria azera: il ronzio dei droni che al suonare delle sirene d’allarme giungono a terrorizzare quei pochi civili che hanno deciso di non rifugiarsi a Erevan, capitale di quell’Armenia che dal 27 settembre scorso sta combattendo una feroce guerra contro l’Azerbaigian, suo nemico di sempre.
Siamo nel Nagorno Karabakh, un territorio conteso tra Armenia e Azerbaigian dove da più di un mese si combatte nelle trincee, sotto il fuoco dell’artiglieria nemica, per espugnare un fazzoletto di terra in più o in meno. Come sulla linea del Piave, i soldati armeni che ci accompagnano al fronte su una vecchia Lada anni ’60 di fabbricazione sovietica continuano a ripeterci che per loro non esiste nessuna resa. “È compito nostro difendere questa terra”, ci dice il soldato semplice Hyak, 31 anni. “Se i politici avessero voluto, avrebbero già trovato una soluzione diplomatica. Non crediamo più alla politica. Tocca a noi stare in trincea”, continua il militare lanciando anche una stoccata alla diaspora armena: “Ci servono gli aiuti concreti delle comunità di tutto mondo, non solo i like su Facebook”.
Guidando con i finestrini aperti per sentire gli eventuali rumori di droni in avvicinamento, incrociamo dei veicoli militari che ritornano dal fronte. Hanno un’enorme croce bianca disegnata sul cruscotto anteriore per farsi riconoscere dall’artiglieria armena e evitare così il fuoco amico. “È un’usanza che portiamo avanti sin dalla guerra degli anni Novanta”, ci dice la nostra guida. “Gli azerbaigiani – mussulmani – non metterebbero mai una croce sulle proprie vetture”, specifica quasi sorridendo.
A Martuni – che in armeno significa “la città pronta a combattere” – le cicatrici della guerra degli ultimi anni sono evidenti: crateri di bombe che troncano le strade, scuole abbandonate, edifici distrutti o crivellati da colpi come se fosse Sarajevo. Gli uomini e i ragazzi sono al fronte, le donne e bambini si sono rifugiati lontano e sono gli anziani a presidiare il villaggio. Dei 5mila abitanti ne rimangono solo cinquecento. L’abbigliamento di alcuni degli irriducibili anziani che incontriamo per strada, composto da divisa militare, sacchi della spesa, pantofole e a tracolla un AK-47 Kalashnikov, è il segno della loro convivenza con la guerra: una giornata scandita da impegni quotidiani con il rumore incessante dei bombardamenti che ormai non li sconvolge più.
Dei colpi di mortaio si avvicinano con il loro tuono quasi assordante. C’è chi si rannicchia, chi si guarda intorno impaurito, ma loro no. Gli anziani rimangono fermi, in piedi come delle rocce con la loro faccia scalfita e i loro occhi consapevoli che noi ospiti siamo destinati a ripartire a breve, mentre loro rimarranno davanti alla loro casa, sotto le bombe, con le pantofole e il kalashnikov sotto braccio. Così è stato sin dal 1991 e così sarà anche oggi.
Sempre a bordo dell’irreprensibile Lada con la scritta Press ben visibile su tutti i lati dell’automobile, decidiamo di spingerci ancora più vicini alla prima linea. Ci fermiamo ad un blocco, corriamo tra una trincea e l’altra per raggiungere un avamposto a qualche kilometro dalla strada. Bisogna tenere la testa bassa e rispettare un distanziamento di un paio di metri gli uni dagli altri, non in ossequio a qualche regola imposta dal Covid19, ma per evitare di diventare l’obiettivo prediletto dei Bayraktar, droni di fabbricazione turca che stanno decimando l’artiglieria armena sin dall’inizio del conflitto.
In un bunker, soldati parlano concitatamene al telefono, in armeno. Sebbene la discussione sia incomprensibile, le loro facce sono facilmente decifrabili e le notizie dal fronte non sembrano ottime. Ci ordinano di sbrigarci poiché abbiamo ancora poco tempo per uscire dalle trincee e correre qualche centinaio di metri in un campo all’aperto per vedere il trionfo della contraerea armena. Si tratta di un drone azero abbattuto qualche giorno prima. Ancora con il fiatone per la corsa, ci fermiamo a fotografarlo. I soldati ci dicono che si tratta di un biplano Antonov An-2, fabbricato ancora ai tempi dell’Unione Sovietica, riadattato per essere pilotato da remoto e con dell’esplosivo a bordo. L’obiettivo dell’aviazione azerbaigiana era quello di farlo schiantare come kamikaze su qualche postazione militare avversa. I relitti giacciono sull’erba e gli ufficiali armeni ci guardano compiaciuti di questo loro trofeo da poter esibire alla stampa estera.
Il ritorno alla fidata (o quasi) Lada sovietica sembra un ripiegamento. Entriamo nella macchina che stenta a ripartire e abbiamo il timore che non regga la velocità sostenuta che il nostro autista mantiene per riportarci a Stapanakert, la capitale del Nagorno Karabakh o Repubblica indipendente di Artsakh, come viene chiamata da chi abita queste terre. Qualcosa sta succedendo al fronte e sul nostro tragitto di rientro incappiamo fatalmente in diversi mezzi armeni che trasportano dell’artiglieria pesante. Ogni volta che alla radiolina militare ci sono delle parole urlate in armeno, il piede dell’autista spinge sull’acceleratore.
Purtroppo in macchina ci arriva una triste notizia. Un giovanissimo soldato della comunità assiro-armena è stato ucciso durante l’offensiva azera. Youhanna Avdishoev, 18 anni, uno studente che aveva abbandonato gli studi per arruolarsi volontario nelle truppe armene, avrebbe compiuto il giorno seguente il suo diciannovesimo compleanno. La comunità cristiano assira è una delle comunità che massicciamente hanno risposto alla chiamata alle armi del Premier Nikol Pashinyan, sia per la vicinanza con il popolo armeno sia per combattere contro il loro nemico di sempre, quella Turchia che oltre alla fornitura di equipaggiamento militare all’Azerbaigian, è stata accusata anche di aver inviato migliaia di jihadisti siriani a combattere contro gli “infedeli” cristiani.
È l’imbrunire e le strade con tornanti e curve ad angolo retto non rallentano la nostra corsa verso Stepanakert che ci accoglie con il suono della sirena, segno d’allarme di un drone che sta sorvolando la città. Individuato il rifugio antiaereo più vicino, non ci resta che inchiodare la macchina e correre al riparo al più presto, aspettando che, per l’ennesima notte consecutiva, le sirene smettano di suonare e i bombardamenti cessino in questa guerra combattuta ai confini dell’Europa. La stessa Europa che, per evitare un confronto aperto con la Turchia, principale sponsor dell’Azerbaigian, preferisce chiudere gli occhi davanti a migliaia di morti che, come l’assiro-armeno Youhanna Avdishoev, continuano a morire giovanissimi sul campo.
Marco Gombacci. (Inside Over)