(Roma 02 novembre 2020). La lira turca ha perso oltre il 50 per cento del suo valore nel giro di un anno e le banche in Europa tremano: 120 miliardi di euro andranno in fumo se l’economia di Ankara farà crack. La situazione per chi ha acquistato o sottoscritto contratti in lire turche è allarmante. Oggi un dollaro statunitense costa più di 8,3 lire, mentre un anno fa valeva 5,5 lire e addirittura 1,4 lire nel 2011. L’avvitamento della crisi monetaria turca ha subito una brusca accelerazione dopo le ultime sparate del presidente-sultano Recep Tayyip Erdogan contro l’Unione Europea, contro la Francia e perfino contro un potente alleato come gli Stati Uniti. L’ambiziosa e muscolare politica estera della Turchia, pur sostenuta da un potente e ricco alleato come il Qatar, potrebbe crollare a picco sotto i colpi dei mercati. Lo scorso settembre, l’agenzia Moody’s ha declassato il rating sul debito della Turchia a “B2”, citando maggiori vulnerabilità esterne e l’erosione delle riserve fiscali nel Paese, prospettando un outlook negativo: significa che il debito della Turchia è ad alto rischio d’insolvenza, cioè chi vanta crediti in Turchia rischia di rimanere con un pugno di mosche in mano.
La Spagna ha un grosso problema
Chi rischia di più è la Spagna. L’esposizione degli istituti di credito spagnoli è da brividi: 62 miliardi di euro, ovvero più dei crediti vantati da Francia (29 miliardi), Germania (11 miliardi), Italia (8,7 miliardi) e Regno Unito (12 miliardi) messi insieme. Un enorme macigno che pesa sulle ambizioni di Madrid in Nord Africa, dove gli spagnoli sono sempre più in competizione con l’Italia. I cugini iberici stanno moltiplicando gli sforzi diplomatici in Egitto, Algeria e soprattutto in Libia, dove Roma deve già difendersi dalle iniziative francesi. Vale la pena ricordare che nel 2019, le importazioni di petrolio della Spagna dalla Libia hanno raggiunto il record di 170mila barili al giorno, diventando il terzo fornitore di petrolio del paese europeo. Il ruvido intervento della Turchia a sostegno del Governo di accordo nazionale di Tripoli ha cambiato il corso della guerra civile libica e ora l’intera Tripolitania sembra essere sotto il giogo di Erdogan. Per assicurarsi le risorse petrolifere libiche, Madrid deve smarcarsi dai dettami della Turchia in Libia, ma al tempo stesso non può permettersi uno scontro frontale con Ankara, alleato nella Nato e soprattutto debitore ad alto rischio insolvenza.
E l’Italia ?
L’Italia è messa meglio, ma non è del tutto fuori pericolo. L’uscita parziale di UniCredit da dalla joint venture Koc Finansal Hizmetler che controlla Yapi Kredi, la terza banca della Turchia, ha ridotto l’esposizione del nostro Paese. Umberto Triulzi, professore ordinario di Politica Economica all’Università di Roma “La Sapienza”, ha detto in una recente intervista ad Agenzia Nova che la scelta di ridurre le quote in Turchia non è necessariamente un bene: “Naturalmente, sarebbe un problema se il debito estero turco dovesse diventare inesigibile, ma per quanto riguarda i rapporti bancari non siamo così messi male come altri paesi. Questo un pochino ci protegge, ma è anche un segnale di debolezza dell’Italia, che poi non è presente in tanti altri mercati che, invece, vanno bene”. Secondo il sito web Infomercatiesteri, l’interscambio commerciale tra Italia e Turchia ha raggiunto quota 17,9 miliardi di dollari, con 8,6 miliardi di esportazioni italiane verso la Turchia e 9,3 miliardi di export turco verso l’Italia. Nel 2019, l’Italia è stata il quinto fornitore della Turchia dopo Russia, Cina, Germania e Stati Uniti ed il terzo cliente dopo Germania e Regno Unito. Una grande crisi economica in Turchia avrebbe quindi ripercussioni certe sui “big” del calibro di Barilla, Eataly, Eni, Ferrero, Fiat Saipem, Salini, Luxottica solo per citarne alcuni.
Alessandro Scipione. (Inside Over)