Erdogan si scaglia contro Mosca e minaccia una nuova operazione in Siria

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(Roma 29 ottobre 2020). Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha minacciato una nuova operazione militare nel Nord della Siria, se i gruppi curdi non si ritireranno dalle aree al confine con la Turchia.

Le parole di Erdogan sono giunte il 28 ottobre, nel corso di un discorso rivolto in Parlamento, in occasione di un incontro del Partito della Giustizia e dello Sviluppo, da egli fondato. Il capo di Stato ha innanzitutto condannato il ruolo della Russia nel panorama siriano e le operazioni da essa condotte, con particolare riferimento all’attacco del 26 ottobre, in cui hanno perso la vita più di 70 combattenti appartenenti (90 secondo fonti locali, ndr) a gruppi affiliati ad Ankara, a Idlib, nel Nord-Ovest della Siria. A detta di Erdogan, Mosca non desidera una “pace duratura” e il fatto che abbia colpito un centro di addestramento dell’Esercito Nazionale Siriano a Idlib è indice del suo mancato sostegno alla pace e alla stabilità della regione.

Riferendosi, poi, ai gruppi curdi, definiti nuovamente “terroristi”, Erdogan ha affermato che la Turchia ha il diritto di agire nel caso in cui questi non vengano allontanati dai confini siro-turchi  così come promesso in precedenza. Ankara, in particolare, “è in grado di ripulire tutta la Siria dalle organizzazioni terroristiche se necessario”, e coloro che non riescono a combattere l’ISIS, come farebbe il suo Paese, dovrebbero rinunciare a quella che è stata definita una “commedia”. A detta del presidente turco, vi sono Paesi che giustificano la propria presenza in Siria nel quadro della lotta contro lo Stato Islamico, ma, in realtà, si tratta di un semplice pretesto. La Turchia, ha affermato Erdogan, è l’unico Paese che si impegna per contrastare l’organizzazione terroristica. Non da ultimo, secondo il capo di Stato turco, “l’entità” che Washington sta provando a stabilire lungo il confine iracheno-siriano è foriera di nuovi conflitti, dolori e tragedie. In tale quadro, è stato evidenziato, è il popolo siriano a pagare con il proprio sangue “il prezzo dei giochi strategici del regime e delle organizzazioni terroristiche che provengono da fuori regione”.

Le parole di Erdogan si inseriscono nel quadro del perdurante conflitto siriano, scoppiato il 15 marzo 2011 ed entrato, oramai, nel suo decimo anno. Le tensioni dell’ultimo anno hanno riguardato soprattutto Idlib, ultima roccaforte posta sotto il controllo dei gruppi di opposizione. Il 5 marzo scorso, il presidente russo, Vladimir Putin, ed il suo omologo turco, Erdogan, hanno concordato una tregua nella suddetta regione, volta a favorire il ritorno degli sfollati e rifugiati siriani. Un altro punto dell’accordo prevede l’organizzazione di operazioni di pattugliamento congiunte tra Mosca e Ankara, da effettuarsi prevalentemente presso l’autostrada M4, a circa 30 km dal confine meridionale della Turchia.

Dal canto suo, la Turchia, sostenitrice dei ribelli, ha istituito circa 60 postazioni militari nel Nord della Siria, distribuite sui governatorati di Idlib, Aleppo, Hama e Latakia. Quindici punti sono posti in aree cadute sotto il controllo delle forze affiliate al presidente siriano, Bashar al-Assad. Motivo per cui il presidente turco Erdogan ha più volte esortato l’esercito di Damasco ad abbandonare le aree occupate dal mese di aprile 2019, minacciando un intervento delle proprie forze.

Parallelamente, Erdogan si oppone alla presenza dei gruppi curdi, con particolare riferimento alle Syrian Democratic Forces (SDF), in una vasta area che si estende per 480 km dal fiume Eufrate al confine con l’Iraq. Per tale ragione, Ankara ha condotto diverse operazioni nella regione siriana settentrionale, con l’obiettivo di espellere tali gruppi. L’ultima, “Fonte di pace”, risale al 9 ottobre 2019, ed ha avuto inizio un giorno dopo il ritiro delle truppe statunitensi dalla regione. I combattimenti sono durati fino al 22 ottobre dello stesso anno, data in cui Erdogan ed il suo omologo russo, Putin, hanno raggiunto un’intesa a Sochi, nel Sud della Russia. Le due parti hanno concordato sulla necessità di respingere le forze curde dalla “safe zone” al confine tra Siria e Turchia, per una distanza pari a circa 30 km.

Le Syrian Democratic Forces sono un’alleanza multi-etnica e multi-religiosa, composta da curdi, arabi, turkmeni, armeni e ceceni. Il braccio armato principale, nonché forza preponderante, è rappresentato dalle Unità di Protezione Popolare curde (YPG). Fin dalla loro formazione, il 10 ottobre 2015, le SDF hanno svolto un ruolo fondamentale nella lotta contro lo Stato Islamico in Siria, contribuendo alla progressiva liberazione delle roccaforti occupate dai jihadisti. Le loro operazioni sono state perlopiù sostenute dagli Stati Uniti, che forniscono armi e copertura aerea.

Piera Laurenza. (Sicurezza Internazionale)