(Roma 07 settembre 2020). L’accordo tra Netanyahu e bin Zayed, promosso dal genero di Trump è un accordo di pace. ma non pone fine a nessuna guerra. Per il resto, formalizza, estendendola, una collaborazione già esistente. E i formalismi, nel mondo arabo, contano eccome.
Ed è anche, e soprattutto, la fine, esplicita, di un tabù. Da ora in poi, la soluzione della questione palestinese non sarà più, come solennemente richiesto dal mondo arabo nel 2002, e sostenuto dall’Europa e, sino ad un periodo recente, dagli stessi Stati uniti, la premessa necessaria per la normalizzazione dei rapporti tra Israele e l’ambiente circostante. Mentre non è per nulla scontato, per non dire escluso, l’inverso: leggi la normalizzazione come parte di un processo che porterà ad un accordo di pace in Palestina.
In questo accordo non c’è proprio nulla per i palestinesi. Nemmeno la rinuncia al programma di annessioni. Gli Emirati affermano che Gerusalemme l’ha abbandonato; Netanyahu ha dichiarato, ad uso interno, che è semplicemente sospeso. Ognuno ha venduto per buona la sua versione; anche se smentita dall’altro. Quale delle due sia quella buona, lo decideranno le circostanze. Allo stato, il leader israeliano ha scelto di costruire un rapporto con il mondo arabo a scapito di quello con il coloni e l’estrema destra politico-religiosa del suo paese. Rinunciando, conseguentemente, alla prova di forza di nuove elezioni. E non c’è nulla nemmeno sul terreno che pur faceva parte dell’ »accordo del secolo »: l’impegno per un massiccio programma di investimenti nei territori tali da migliorare in modo consistente le condizioni di vita della popolazione. Per non dire che non c’è proprio nulla di nulla. Un fatto formalmente inesplicabile. E non certo attribuibile al rifiuto del piano da parte dell’Olp; non foss’altro perché a dire no sono stati anche gli israeliani…
Nel suo commento entusiastico dell’accordo, Piero Fassino, esemplare perfetto del « comunista che si contenta », invita perentoriamente l’AP a « uscire dall’immobilismo ». Ma si guarda bene dall’indicare come. Di fatto il popolo palestinese non è in grado di fare o dire nulla di rilevante siull’intesa; salvo a gridare, magari sommessamente, all’ennesimo tradimento. E non può fare nulla perchè non è uno stato: ma una struttura totalmente dipendente dall’esterno per la sua stessa esistenza; e priva del consenso del suo stesso popolo. Fino a ieri la Palestina era, almeno a parole, una Causa stancamente evocata. Ora non più. Rimane però e diventerà sempre più un Problema Nella convinzione, corretta, che a renderla tale, anche e soprattutto per Israele, sarà la presenza di oltre 8 e più milioni di persone nell’area; per tacere della forza politica crescente degli arabi ib Israele.
Piero Fassino ci spiega che l’accordo si estenderà sicuramente agli altri paesi, a partire dall’Arabia saudita. Ma, almeno formalmente non è così.. E, per capirne le ragioni, basti pensare alla radicale differenza tra la situazione di Dubai e quella di Ryiad.
Nel primo caso non esistono né vincoli né controindicazioni. Nessun tabù islamico: l’Arabia saudita ospita la Mecca, gli Emirati l’albergo più alto del mondo. Nessuna controindicazione politica o missione universale da svolgere: l’Arabia saudita deve propagare il verbo del sunnismo ortodosso nel mondo e ha dato i natali a Osama bin Laden oltre a terroristi vari; compito degli Emirati è di comprare alberghi, società varie e squadre di calcio. Dubai dà lavoro a tutto il mondo, compresi i medici italiani ed è visitata da 15 milioni di persone l’anno essendo luogo deputato di tutti i traffici leciti o illeciti; l’Arabia Saudita non è visitata da nessuno e, per il resto, sta sullo sfondo. In sintesi, gli Emirati godono dell’ebbrezza totale dovuta al dio Denaro; mentre i sauditi devono prestare più attenzione ad Allah…
Di fatto, questa distinzione ha una scarsa importanza. Non si sottoscrive; ma si prende atto con favore. Il che garantisce che i benefici economici dell’accordo ci saranno per tutti; e non si tratta certo di benefici di poco conto a partire dal reperimento e dal razionale uso delle risorse idriche.
Quanto basta per sottolineare il valore economico in questo caso anche sociale, dell’intesa.
Sull’aspetto politico è invece lecito nutrire più di qualche dubbio. A partire dall’esito, probabile, del voto americano, con la vittoria di Biden e del suo mentore Obama; le cui conseguenze sarebbero, nel nostro caso, ragionevolmente certe. Niente guerre e allentamento progressivo delle sanzioni nel quadro di un negoziato generale e su tutto; appuntamento, stremato e sulla difensiva com’è, ha tutto l’interesse a partecipare.
E con il tacito consenso dello stesso Israele che già ora non lo considera più suo nemico principale. Ruolo ricoperto ora dalla Turchia
E allora lo scenario tornerà ad essere, curiosamente, quello di cento anni fa. Il mondo arabo, con l’aggiunta di Israele, tramuto da problema a risorsa, contro la Turchia e il suo progetto neo ottomano.
A deciderne l’esito sarà l’atteggiamento dell’Europa e degli Stati uniti. In un contesto in cui la Turchia di oggi, a differenza di quella di allora, dispone di tre grandi atout: essere all’attacco; disporre di uno degli eserciti del mondo; è « last but not least », fare parte della Nato. E allora, contentiamoci di apprezzare i risvolti economici dell’accordo. Per il resto, si vedrà.
(Alberto Benzoni)