(Roma-05 maggio 2020). L’uomo chiave del clan del presidente siriano e patron della Syriatel accusa Bashar di «comportamento disumano» e si rifiuta di saldare i debiti con il fisco. Intanto ambienti vicino al Cremlino muovono critiche al regime di Damasco.
Aria di tempesta in Siria, Paese da poco entrato nel suo decimo anno di guerra e alle prese con l’inizio della ricostruzione post bellica. La partita è duplice e riguarda sia i rapporti all’interno dell’establishment siriano, sia le relazioni diplomatiche con Mosca, alleato fedele e fondamentale per la sopravvivenza al potere della famiglia Assad ma che da qualche mese a questa parte mostra sempre più segni di insofferenza nei confronti del clan alawita.
Se penetrare la cortina di segretezza e mistero che da sempre aleggia intorno al regime di Damasco non è impresa semplice, gli indizi più evidenti sono proprio le parole di Rami Makhlouf cugino del presidente Bashar al Assad e uomo chiave per la permanenza al potere del secondo genito dell’ex presidente Hafez. Per anni indicato come il «banchiere del rais» ma da mesi al centro di voci su una sua possibile epurazione — nella gestione degli affari più importanti gli è stato preferito un altro magnate, Samir Foz— domenica scorsa Rami ha pubblicato un video sui social network. Rivolgendosi direttamente al cugino dice: «Presidente (Assad), le forze di sicurezza hanno iniziato ad attaccare le libertà delle persone. Questi sono i tuoi fedeli sostenitori. La situazione è pericolosa e per Dio, se continuiamo, la situazione del Paese sarà molto difficile».
Il messaggio è senza precedenti, perché Makhlouf usa un tono di sfida e parole decise mentre accusa l’apparato di sicurezza governativo di compiere una campagna di arresti nei confronti di impiegati di Syriatel, la sua compagnia di telefonia cellulare. «State adottando un comportamento disumano», sostiene. Il tutto dopo aver definito in un precedente video pubblicato sabato «ingiusta» la richiesta di saldare i suoi debiti col fisco per oltre 300 milioni di euro. «Mi stanno chiedendo di prendere le distanze dalle mie aziende e fare esattamente quello che mi ordinano di fare, mentre io sono bendato e non sono in grado di rispondere», conclude poi.
Per capire cosa c’è sul tavolo bisogna però fare un passo indietro. Rami — uomo da sempre considerato vicinissimo al potente mukhabarat siriano, l’intelligence di Damasco — è stato decisivo nella salita al potere di Bashar, dopo la morte del fratello Basil, è considerato il grande burattinaio dei servizi, nonché l’artefice del matrimonio di Bashar con la rosa del deserto Asma, scelta per dare al regime una parvenza di rispettabilità nei salotti finanziari europei dopo la caduta del Muro di Berlino. D’altro canto Makhlouf, deve la sua fortuna a Bashar: ha finanziato il leader siriano negli ultimi 20 anni e ha sostenuto gran parte dello sforzo bellico del regime dal 2012. Attraverso il suo impero controlla il 60 per cento dell’economia siriana e pur essendo nel mirino delle sanzioni Usa e Ue ha accumulato una fortuna da 18 miliardi di dollari. Una fortuna se si considera che il Pil siriano del 2010 ammontava a 60 miliardi. Tradotto significa: edilizia; importazioni di automobili, la vendita al dettaglio, il turismo. E infine le telecomunicazioni, in cui la rete mobile Syriatel è stata proprio la punta di diamante del suo impero.
Ma perché allora il patto tra i due si è rotto? Rami ha tirato troppo la corda? Oppure si tratta di una “sceneggiata” ad uso e consumo esterno? Se dal palazzo presidenziale tutto tace — a parte uno scarno comunicato dell’autorità per le telecomunicazioni siriane in cui si ribadisce la necessità di pagare i debiti con il fisco nulla si è mosso – la vicenda ha messo in luce una profonda preoccupazione per le precarie finanze del paese e ha portato alla speculazione che la first lady siriana Asma abbia assunto un ruolo guida nell’enorme business della ricostruzione, tagliando fuori il potente cugino del marito.
Speculazioni a parte, lo scontro familiare via social arriva dopo che i rapporti tra Damasco e Mosca, primo alleato, fondamentale nel supporto militare e politico del regime nonché del mantenimento dello status quo, pare essersi incrinato. Il Cremlino — desideroso di ridurre l’impegno militare — sta infatti facendo pressione su Assad affinché conceda terreno all’opposizione ma che soprattutto coinvolga Mosca negli affari sulla ricostruzione. Due mosse che evidentemente a Bashar non va di fare, tanto più se il business è quasi tutto nelle mani di suo cugino e dunque della famiglia.
Risultato, a metà aprile un think tank legato al Cremlino ha pubblicato un report a firma di Aleksandr Aksenenok, alto diplomatico ed ex ambasciatore in Siria, in cui si legge: «Damasco non pare particolarmente interessato alla stabilizzazione del Paese e che continua a cercare una soluzione militare con il sostegno dei suoi alleati e aiuti finanziari ed economici incondizionati come ai vecchi tempi dello scontro sovietico-americano in Medio Oriente», ha tuonato Aksenenok . Come dire, insomma, che i tempi in cui si poteva pretendere flusso costante di denaro dalle casse del Cremlino sono finiti e che è giunta l’ora che Assad trovi un compromesso, se vuole restare al potere. «A Mosca si teme che la Siria si trasformi in una mini-Afghanistan proprio quando la crisi coronavirus sta colpendo la Russia in modo particolarmente grave. L’escalation mediatica da parte di Makhlouf arriva quindi in un periodo di particolare debolezza per Assad, che oltre alle tensioni con Mosca è al centro delle polemiche per la profonda crisi economica che il Paese attraversa e per la scarsa efficienza nel gestire l’elemergenza coronavirus», sottolinea Eugenio Dacrema, co-Head di Ispi Mena Centre. E non solo. Le critiche puntuali arrivano nonostante a Mosca sappiano molto bene come non esista — dal punto di vista russo — un’alternativa valida ad Assad. «Vogliono Assad perché pensano di poterlo controllare», ha dichiarato un diplomatico turco ad Al Jazeera chiedendo di restare anonimo.«Non vogliono l’Iran perché non possono. Ma entrambi stanno provocando grandi mal di testa ai russi».
Marta Serafini – Corriere della Sera. (L’articolo)